venerdì 31 dicembre 2010

Auguri dal Nord Italia: notte magica a Sacile

Sulla danza morbida dei fiocchi di neve e nella morsa del gelo pungente auguro alle mie care amiche compagne d'avventura Enza e Giulia e a tutti quanti hanno la pazienza di leggere i nostri pazzi pensieri in libertà un nuovo anno di serenità e soddisfazioni e di riuscire a realizzare almeno un desiderio, piccolo o grande che sia.
Cri

                                                                   BUON 2011!!!     

mercoledì 22 dicembre 2010

Sarò in grado di fare una sorpresa alle mie compagne di viaggio Cri e Giulia?

Care amiche,
se  state leggendo  questo post, vorrà dire che ho superato la mia pigrizia e  che mi sono finalmente impegnata a studiare come fare per poter pubblicare una pagina sul nostro blog!
Si respira un’aria strana a Roma e nonostante la mia radio on air è sintonizzata su un canale che trasmette canzoni natalizie, da fuori provengono ben altri suoni.
La città vorrebbe  già essere alla fine di questa giornata e sperare che la manifestazione studentesca non degeneri ,come già accaduto, in episodi di violenza.
Gli elicotteri sorvegliano dall’alto la città, il centro storico è blindato e personalmente non mi aspettavo un dispiego di forze dell'ordine in assetto di guerra, in giro per Roma. Certo, una nota stonata in un periodo dell’anno dove tutti vorrebbero credere e dimenticare per un po’ i dolori di un paese malato ma stavolta le ferite sono così grandi che far finta che non sanguinino  è un pò difficile!
Nonostante questo,vorrei poter chiudere, anche solo per poco, le finestre che affacciano sul mondo reale e raccogliere i miei pensieri  “prenatalizi “sul nostro “microcosmi in valigia”.
Quest’anno ho deciso di trascorrere le vacanze nella mia casa romana, costringendo i miei genitori e mio fratello a preparare le loro di valigie. Sarà un po’ insolito, considerato che non saremo circondati dalla baraonda della mia numerosissima  famiglia, ma sentivo il bisogno di sentire respirare le persone che amo tra le mure di quella casa dove vivo per il resto dell’anno.
Il tempo non promette niente di buono e se tenere  a bada il mio amatissimo nipotino di 3 anni in un appartamento sarà un’esperienza movimentata, sono convinta che la tavola del cenone sarà degna della migliore tradizione siciliana. I miei genitori, da buoni meridionali, sono sbarcati a Roma con gli abiti  racchiusi in una piccola valigia e ben tre borse stracolme di cibo!
Totani, baccalà, tacchino ripieno, spezzatino, salsiccia condita e non, cotolette pronte all’uso, un bel bidoncino d’olio ed ancora arance, limoni e persino prezzemolo, aglio e cipolle (la coltivazione di tali aromi è vietata nel resto d’Italia!!!!). Mi hanno assicurato che il dolce lo avrebbe portato mio fratello, perché in aereo si fa prima e quindi la crema si mantiene…ahhhhhhhhhh!!!!
Vabbè, questo significa che il menù a cui avevo pensato da qualche settimana verrà totalmente sovvertito dalla mia mamma che sa il fatto suo in cucina e che mi dispenserà dal maneggiare pentole e padelle per qualche giorno. Nessuno osi, invece, avvicinarsi all’albero e tentare di usurpare il mio ruolo di  “distributrice di regali”, ruolo che in realtà  mi contenderò al massimo con mio nipote, considerata la natura poco incline a questo genere di attività del resto dei presenti!
Comunque amiche, qualsiasi cosa voi troviate sotto il vostro albero sappiate che ci sarà un pacchettino, dimenticato e nascosto, che contiene il mio grazie per voi e per tutte le volte che avete reso la mia strada meno in salita!
Buon natale dalla capitale d’Italia (esiste ancora, vero???)

mercoledì 1 dicembre 2010

Thanksgiving day

Cristina: Tacchino e non solo...

Giovedì 25 novembre ho imparato che il Thanksgiving day, nonostante sia una tradizione ben radicata nei cuori e nelle menti degli Americani, viene ogni anno proclamato per decreto presidenziale.
Ingenuamente ero convinta che fosse una ricorrenza stabilita per convenzione nell'ultimo giovedì del mese di novembre senza bisogno di particolari ufficializzazioni: mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo!
Quest'anno Obama ha siglato il 147° decreto, il primo risalente al 1863 porta la firma di Abramo Lincoln anche se l'istituzione della festa risale a tempi più lontani (1621) e il primo discorso ufficiale agli Stati Uniti d'America sul giorno del ringraziamento fu del primo presidente George Washington (1789).
Ho anche capito che il Thanksgiving è una festa nazionale che gli Americani di ogni estrazione sociale, di ogni credo religioso e di ogni provenienza geografica sentono profondamente. Mi sono chiesta il perchè e ho trovato queste risposte di buon senso. Si ringrazia la mano onnipotente (Almighty hand) per quanto ricevuto durante l'anno ma non è una festa prettamente religiosa che se coinvolge un credo esclude per forza di cose gli altri. Ogni fede può riconoscere nella 'mano onnipotente' quella del proprio Dio e per chi non crede c'è comunque posto: non esiste in fondo sempre qualcosa per cui valga la pena ringraziare se non altro la buona sorte? E' una festa praticamente americana (anche canadese a dire il vero) e questo crea coesione e senso di appartenenza e soprattutto simboleggia l'incontro fra culture diverse e valorizza il principio dell'ospitalità.
Al di là di ogni ipocrisia che ogni celebrazione di questo tipo nasconde e neanche tanto abilmente – fratelli per un giorno, coltelli per tutto il resto dell'anno - bisogna riconoscere l'effetto lenitivo che ha sulle anime, quasi fosse un balsamo per ammorbidire la ruvidità della vita quotidiana... almeno per un giorno: esperienza personale.
Un collega molto gentile del mio ingegnere ha invitato noi ed altri due colleghi soli come noi (forse gli abbiamo fatto un po' pena al pensiero che tutti eravamo lontani dalle nostre famiglie) a trascorrere la giornata del Thanksgiving a casa sua con la sua gente. Metà arriva dal Giappone e metà dalla Cina anche se vivono negli Stati Uniti ormai da una vita intera; tra loro già qualche coppia mista indice inconfutabile di integrazione e di commistione dei popoli.
Eravamo quattro perfetti estranei nel mezzo di un gruppo numeroso di parenti: nonni, zii, nipoti, insomma tutte le generazioni rappresentate. Abbiamo condiviso il cibo, esperienze di viaggio e di vita in generale, rilevando affinità e differenze. Eravamo quattro estranei ma lo siamo stati davvero per poco; l'accoglienza è stata sincera e sobria, come piace a me, senza eccessivi e stucchevoli formalismi.
L'invito a fare “come se fosse casa vostra” era sentito e non di convenevole; nessuna etichetta sociale, nessuna categoria economica da far prevalere, solo persone che per un giorno stanno insieme e stanno bene e noi con loro.
La prima cosa che abbiamo dovuto fare entrando nella loro casa è stata toglierci le scarpe ma superato l'imbarazzo iniziale, soprattutto per me ed il mio ingegnere per niente abituati a tale pratica, ci siamo buttati nella mischia degli scalzi e dopo le dovute presentazioni con le immancabili buffe storpiature dei nomi, abbiamo onorato la tavola essendo notoriamente due buone forchette : avevamo una fame!
Il rito del levarsi le scarpe , oltre a richiamare l'antica cultura orientale, è apparentemente legato al tentativo spesso vano di mantenere pulito il “carpet” (l'odiosa moquette) che gli Americani per un inspiegabile motivo adorano: lo trovi ovunque, c'è anche nel mio appartamento; ma secondo me rappresenta molto di più. Mostrare le calze indossate o i piedi nudi equivale a scoprirsi agli altri, è come spogliarsi di ogni barriera ed abbassare lo scudo protettivo: si è quello che si è, così senza corazza.
Forse il segreto per superare i pregiudizi e guardarci l'un l'altro per quello che siamo veramente è proprio questo: togliersi le scarpe!
Essi hanno ringraziato la loro Almighty hand, noi abbiamo ringraziato loro per la generosa ospitalità e per la bella giornata che io non mancherò di mettere nella mia valigia dei ricordi americani insieme a tutto quello che ho imparato.

Ecco il menù della giornata: lo definirei mex-italo-asia-americano

APPETIZERS
bruschette al pomodoro
cruditè di verdure con salsa tartara
pizzette assortite
torta salata al radicchio, gorgonzola e noci
torta salata patate e peperoni
nachos e guacamole
crackers con salse varie
crema di spinaci, carciofi e formaggio da spalmare su pane o nachos
insalate varie
cocktail di gamberi
involtini e ravioli cinesi
fagottini di riso
patate rosse dolci all'ananas e cannella

ENTRE'E
tacchino al forno con ripieno
prosciutto cotto al forno
tacchino ripieno vegetariano (a base di tofu)
condimenti: salsa di mirtilli rossi, gravy classica e vegetariana

CONTORNI
purè di patate all'aglio
mais dolce al latte
funghi grigliati
riso all'uvetta
riso bianco
insalata mista

DESSERT
torta alla zucca e cannella
torta alla zucca vegana (senza uova e senza latte)
torta alle noci pecan
hawaian pie (torta a strati con frutta e panna)
bread pudding
apple pie
waffers giapponesi
ginger bread
pasticcini di pasta frolla
frutta fresca (melone, anguria e melone bianco)
torrone morbido mandorle e pistacchi
caffè americano
yerba mate (infuso tipico del sudamerica)

martedì 23 novembre 2010

Varrebbe ben un tatuaggio ... per non scordarlo mai!

"... in generale le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio per essere giudicate brave almeno la metà.
Per fortuna non è così difficile!"

Emma Bonino
Elenco delle cose che passano sul corpo delle donne
"Vieni via con me", 22 novembre 2010

lunedì 22 novembre 2010

“E’già un miracolo che ne parliamo”

Vieni via con me, lunedì 15 novembre 2010
Saviano: l'intervento delle polemiche

E' di nuovo lunedì, e mentre pubblico questo post la voce di Saviano che racconta un'altra storia (quella delle infiltrazioni mafiose nello smaltimento dei rifiuti) si diffonde nella stanza ... l'orecchio alla TV e l'occhio sullo schermo del pc.
Cosa c’entrano tre cavalieri medioevali con la mafia?
Quando ho visto apparire l’immagine di tre cavalieri medioevali alle spalle di Saviano, mi sono chiesta se per questa seconda puntata di “Vieni Via con Me”, nata sotto la cattiva stella di un’eccessiva polemica, il noto e giovane scrittore (quando penso che ha solo un anno più di me mi vengono i brividi!) avrebbe abbandonato le tematiche socio-politiche che l’hanno reso famoso, per avventurasi in un interessante (e certo più sicuro) trattato di storia.
Nelle nostre radici, nelle nostre leggende, nel nostro passato si trovano le risposte ai grandi perché del presente, nella mitologia si trova sempre un fondo di verità.
La mia era una convinzione radicata nello studio delle antologie scolastiche: "la storia della mafia è relativamente recente, la malavita organizzata nasce all’inizio dell’800, parallelamente al brigantaggio, è una delle prime sfide dell’Italia Unita". Battaglia persa, a quanto pare, dai nostri progenitori risorgimentali.
Non conoscevo la leggenda dei tre cavalieri spagnoli: Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che rappresentano la romanzata tradizione delle tre maggiori organizzazioni criminali italiane: la Mafia siciliana, la Camorra campana e l’‘Ndrangheta calabrese. Soprattutto non avevo idea che ancora oggi queste figure mitologiche fossero richiamate durante i riti di affiliazione, insieme ai Santi e perfino alla Madonna, il tutto al fine di mettere la propria vita al solo servizio dell’onore della “società”, infliggendosi la condanna ad una vita di fughe, nascondigli e infelicità … praticamente un ergostolo.
Saviano mette il dito nella piaga, descrive la precisione con la quale la malavita elabora i suoi sistemi gerarchici … conosco aziende che pagherebbero per avere un organigramma così accurato! Nella mia ignoranza, il Padrino era il top dell’organizzazione – nella visione holliwodiana Marlon Brando era ai vertici - mentre scopro, con sorpresa, che sopra il Padrino ci sono almeno altri cinque o sei livelli gerarchici.
Sono nata in quello splendido lembo di terra che porta da Venezia a Padova, noto per le sue ville settecentesche, ma soprattutto per la cosiddetta “Mala del Brenta”, che ha vissuto il suo “massimo splendore” tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’90. Non ho memoria storica di questo periodo drammatico, tranne che per il ricordo delle ambulanze e dell’auto del medico legale, ferme sull’argine vicino a casa mia, mentre la gente mormorava: “hanno trovato un altro morto della banda di Felice Maniero”.
Ingenuamente ammetto che la mia immagine di mafia è quella tratta dai film ambientati negli States (i vari “Padrini”, “The Untouchables”, etc…), che per me erano già il massimo della crudeltà e della spietatezza. Saviano insegna invece che la malavita americana viene considerata “molliccia”, non abbastanza solida, perché dimentica delle regole, incurante delle gerarchie, bisognosa d’essere “purificata” con un ritorno alle origini.
Non posso infine glissare sulle dichiarazioni che hanno fatto scoppiare una polemica politica che sembra senza fine. Si parla dell’‘Ndrangheta, di come la malavita abbia esportato i suoi affari al Nord, ed in particolare in Lombardia, a Milano, dove dalla Fiera di Rho alla Stazione Centrale, le infiltrazioni della criminalità organizzata, sostenuta (come sempre) da centri di potere corrotto, nemmeno si contano. Possibile dunque pensare che le mafie siano un problema esclusivo del Meridione?
Sud, States, Nord: i tre punti d’osservazione dai quali è partito questo blog si intrecciano anche quando si parla dei grandi problemi del nostro Paese. E’ un circolo virtuoso (o vizioso): dal personale al globale, dal locale al nazionale, dal micro al macro. 

Viaggio interiore

Enza: Scoprirsi

Quella di Vitangelo Moscarda è la storia di una consapevolezza che si va man mano formando. La consapevolezza che l'uomo non è Uno, e che la realtà non è oggettiva. Il protagonista passa dal considerarsi unico per tutti (Uno) a concepire che egli è un nulla, (Nessuno), passando alla consapevolezza di se stesso che l'individuo assume nel suo rapporto con gli altri (Centomila)”.

Io: Mamma sai ho fatto un blog.
Mamma: Un che?
Io: Un blog! Una pagina dove insieme a due amiche scriviamo delle nostre esperienze, ci scambiamo idee e parliamo di ciò che ci va.  Vai dalla zia che te lo fa vedere…ok? ciao a domani sera!

Mamma: Ieri sera abbiamo visto il computer (perché prima dov’era? Nascosto?) ed ho letto quello che hai scritto. Mah!
Io : In che senso, non ti piace?
Mamma: No però …non so…perché scrivere cose così personali?
Io: Forse perché mi fa bene…forse perché non sono così personali!
Mamma: Ma non ti vergogni un po’?

Sì, ma credo che non bisogna "vergognarsi" di vergognarsi un pò. Voglio essere un po’ diversa da quello che mi avete insegnato, voglio poter piangere se sono triste, voglio poter dimostrare, alle persone che amo, le mie debolezze.
Ti ricordi, quando da bambina papà mi diceva che se chiedevo le cose piangendo non le avrei mai ottenute?
Ti ricordi come si arrabbiava quando crescendo lo sfidavo con lo sguardo, senza mai versare una lacrima?
Ti ricordi quando ha smesso di dirmi cosa dovevo e non dovevo fare?
Mi chiedo se papà sarebbe ugualmente fiero di me se qualche volta le lacrime che ho dentro mi segnassero il volto.

Il blog è una sfida. Uscire da me stessa per potermi accettare.

Accettare che ascoltare gli altri non è un dono che mi appartiene. Accettare che forse sono veramente un’egocentrica e peggio ancora un'egoista come qualcuno dice.
Sono logorroica, parlo senza prendere fiato, come se temessi che ad un certo punto il mio interlocutore potesse distrarsi.
Ho sempre bisogno di spiegare, quasi a scusarmi per quello che sento, quasi a cercare una legittimazione al mio malessere o alla mia felicità.
Voglio poter accettare che ho paura dell’aereo senza scandalizzare quanti si meravigliano di questo mio “cambiamento”.
Mi avete insegnato ad essere severa con me stessa, ad essere orgogliosa ed avete voluto vedere di me solo la parte forte, quella senza ricordi dei giorni peggiori.
Ma prima o poi fai i conti con tutto ed allora voglio la libertà di capire chi sono.
Sono la figlia che ha accettato un’educazione rigida o quella che si è fatta la sua strada senza problemi?
Sono la sorella un po’ ruffiana e confusionaria o quella che darebbe la vita per te?
Sono la nipote, la cugina esuberante, affettuosa e intraprendente o quella da un sorriso per tutti e via?
Sono la donna solare e simpatica o scostante e pungente?
Sono l’amica del cuore o quella da evitare?
Sono la moglie che cercavi o quella che non avresti mai voluto incontrare?

E’ per questo che ho deciso di intraprendere un viaggio dentro la mia vita, dentro il mio mondo e quello degli altri, per affrontare quello che sono e quella che avrei voluto essere, per piangere quelle lacrime che spesso ho tenuto dentro, per imparare a non vergognarmi delle mie fragilità, per mostrare “l’altra faccia”, per poter accettare che sono una “forestiera della vita”.
Sì, mamma mi vergogno perché scoprirsi è a volte doloroso ma catartico e se a qualcuno questo non piace che dire?….così è se vi pare.

Cristina: A volte piango

A volte piango
ne sento forte il bisogno!

A volte piango
per lavare il fango
della rabbia e del rancore
dall'ignoto eppur mio cuore.

A volte piango
ma disperata rimango
ancorata ad un pensiero
che mi rende il cuore nero.

A volte piango
e il passato rivango,
senza via d'uscita
resta aperta la ferita.

A volte piango
e di riflesso spengo
ogni barlume acceso
di un futuro non speso.

A volte piango
poi della cura dispongo
il caro presente trascurato
il calore del sorriso amato.

A volte piango
ma per il resto del tempo sorrido e vivo!

Quando tutto ci sembra enorme, insormontabile, che ci schiaccia e ci rende inutili, non allontaniamo lo sguardo da chi invece è vicino a noi ogni giorno, che vive nella nostra e per la nostra realtà e ci aiuta, se non a risolvere, almeno a ridimensionare e a rendere più leggeri i nostri problemi, in qualunque parte del mondo ci troviamo.

venerdì 12 novembre 2010

L'Oceano

Cristina: Stupirsi come bambini

Oggi è mercoledì.
E come ogni mercoledì, se non piove e qui fortunatamente accade di rado, ho un appuntamento fisso ormai da qualche mese con il mio ingegnere, per pranzo.
Ci incontriamo a metà strada tra il suo ufficio e il nostro appartamento e quindi al Riviera Village, praticamente il centro (vero eufemismo per le cittadine o i distretti di Los Angeles) di Redondo Beach.
A mezzogiorno esco di casa e m’incammino verso il luogo dell'incontro percorrendo la strada che costeggia l'oceano. Il cielo è un po' nuvoloso, il vento è abbastanza forte da increspare il mare e creare, sulla battigia, uno sciabordio schiumoso e rumoroso.
Cammino come al solito, pensando ai fatti miei ma sempre con lo sguardo rivolto verso l'oceano, come per respirarne un po' e a volte, grazie al vento, succede davvero.
E mentre procedo gli occhi catturano un movimento e una macchia scura nell'acqua che quasi istintivamente riconosco: i delfini!
Non so cosa sia, forse il fatto di averli sempre ammirati solo in tv o negli acquari, ma ogni volta che li vedo così liberi in mare aperto e comunque vicinissimi alla riva, entrare ed uscire dall'acqua con quel loro stile inconfondibile mi sento come una bambina e dentro di me esclamo a gran voce: i delfini!
Guardo bene, ce n'è uno, no sono due, macché addirittura tre: che spettacolo!
E sorrido e percorro la mia strada più leggera e contenta.
Oggi però c'è di più: il mio sorriso viene condiviso.
Incedo ad un passo medio, non ho fretta e ho quasi superato una panchina in cui è seduta una donna di cui non saprei definire l'età ma che mi sembra più giovane che avanti con gli anni. Io sto pensando ai delfini e lei mi dice, con un tono di voce leggermente alto, quasi a volermi impedire di scappare e di ignorare il suo richiamo: “ci sono i delfini, oggi!”.
Mi fermo di scatto e mi giro sorpresa per due motivi; il primo perché ho capito, nonostante il mio inglese da sopravvivenza e il secondo perché sembrava mi stesse leggendo nel pensiero. Scambiamo due parole in proposito e ci salutiamo proseguendo ognuna per la nostra via.
Mi piace pensare che anche lei per qualche istante si sia sentita tornare bambina e non abbia resistito a condividere il suo stupore, quello innocente dei bambini che si meravigliano di fronte alla normalità della natura.
Una passeggiata di novembre da ricordare.

Enza: “Avvisiamo i signori viaggiatori che a breve avrà inizio la traversata dell’oceano Atlantico”.

L'oceano
L’ho conosciuto un pomeriggio d’autunno, quando chiesi a mia zia di portarmi al mare, sentivo il bisogno di ritrovare la mia dimensione, di contenere gli effetti della frenesia che mi aveva travolto dal giorno in cui avevo messo piede sul suolo americano.

Ricordo l’espressione tra il divertito ed il malinconico della zia quando esclamò: “O my God, ma qui il mare non è like in Sicilia”. Le risposi che il mare è mare e che al massimo l’oceano era solo più grande!!!
Sono un’isolana, nata in un mese caldo e la mia pelle è intrisa di salsedine.
Il mio mare, fino a quel giorno, era fatto di cose semplici, di un blu inebriante e rassicurante. Quando i turisti andavano via, ed il mare cominciava a prepararsi all’inverno, amavo sedermi sulla spiaggia incastonata tra Capo Milazzo e Capo Tindari, ai piedi del promontorio sul quale si trova il santuario della miracolosa Madonna Nera. In lontananza, se il giorno era quello giusto, potevi ammirare Vulcano, Lipari ed immaginare la vita degli abitanti delle sette tra le più belle isole del mondo.
In quei momenti mi sentivo un’aquila imprigionata nella sua inquietudine, combattuta tra il desiderio fortissimo di proseguire verso l’orizzonte e quello di rimanere ancorata al proprio nido.
La prima volta che ho visto l’oceano ho provato un’emozione incredibile, mi mancava il fiato.
Il mio sguardo non riusciva a contenere quell’immagine, facevo fatica a cogliere le sfumature dell’acqua e fui colta da un senso di smarrimento. Ero andata oltre l’orizzonte e la mia inquietudine si era trasformata in paura di non farcela.
Con il tempo ho compreso ed accettato che appartengo alla categoria dei siciliani di mare aperto.
Esiste una definizione secondo la quale i siciliani si dividono in due grandi categorie: di scoglio e di mare aperto.
Di scoglio sono quelli che se si allontanano dalla Sicilia, il secondo giorno cominciano ad avere delle crisi di astinenza, gli mancano tutta una serie di cose [...] e il terzo giorno devono assolutamente tornare.
Di mare aperto sono quelli che fanno della loro sicilitudine una specie di patrimonio personale e lo utilizzano per vivere una vita diversa. In Sicilia ci tornano perché sta loro nel cuore, ma comunque scelgono di proiettarsi su un altro orizzonte».
La mia vita adesso è come un oceano, fatta di colori imprecisi, inesplorata come gran parte delle sue acque. Cerco di sopravvivere tra le basse e le alte maree, di non perdermi nella profondità dei suoi abissi, a volte mi sento in balia delle correnti e dei venti altre forte come solo l’oceano sa essere.
Non dimenticherò mai il mio mare, mi farò cullare dalle sue onde ogni qualvolta avrò bisogno di ritrovare la parte più vera di me. 

mercoledì 10 novembre 2010

Virtual birthday!!!

Tra qualche minuto si celebrerà il tradizionale rito della festa di compleanno in ufficio ... purtroppo siete troppo lontane per condividere con me (e con tutta la ciurma qui riunita) pasticcini e pizzette :-(
Per questo dedico questo piccolo spazio nel nostro blog ... al virtual birthday!
Grazie per gli auguri !!!


lunedì 8 novembre 2010

Halloween: al di qua e al di là dell'Oceano

Enza: Halloween capitolino
“Scusi  Domenico, preparate  qualcosa di speciale per Halloween, non so … magari un  menù a base di zucca o qualche pietanza tipica di questa festa? Sa viene a  trovarmi la mia amica d’infanzia dal Veneto e vorrei portarla fuori a cena!”
“Oh, ma stamo a Roma mica a New YorK!”.
E come dargli torto? Vuoi mettere “du bucatini alla matriciana” con i “capelli di Dracula alle larve ammuffite”, per non parlare dell’ “avvoltoio squartato alle erbe stregate” al posto del signor “abbacchio alla scottadito”?
Nonostante nel cuore della Capitale si sia consumata la festa  di “Allowin” – cartello posto accanto ad un furgoncino che vendeva zucche sulla Cristoforo Colombo -  più cool del 2010, dove vip mascheratissimi, pare abbiano attraversato il black carpet dell’acquario romano, trasformato in una vecchia chiesa, con tanto di pulpito, altare, acquasantiere e confessionali, per accedere all'Heineken Halloween Night, io non “me so proprio accorta de niente”.
Per il mio primo Halloween a Roma ho avuto la sensazione che la città fosse stata presa d’assalto più dal “regno dei vivi” che da quello dei morti. La pioggia, infatti, non ha fermato la folla di turisti che ad ogni  costo  voleva riportarsi indietro immagini di ben altre tombe, altari ed acquasantiere ed immortalare uno degli scenari più belli di Roma, quello che puoi ammirare dall’Arco di Settimio Severo.

E così la mia vigilia della festa di Ognissanti l’ho trascorsa all’”Antica Birreria Peroni”, mangiando cannelloni della casa e stinco di maiale con patate al forno il tutto innaffiato da una bella birra alla spina. La birreria aperta nel 1864 è, dopo quella nata accanto alla fabbrica di Vigevano, la prima che il sig. Giovanni Peroni apre, scegliendo Roma,  per la vendita di birra sfusa al pubblico. Dopo un bel boccale di birra la  mia amica ed io avevamo già dimenticato il risottino alla zucca!
Entrambe abbiamo avuto però un po’ nostalgia della nostra infanzia.
In Sicilia la festa dei Santi seguita da quella dei Morti sono molto sentite.
La notte del 31 ottobre si lascia la tavola apparecchiata con cibo e vino in segno di accoglienza per i defunti che vogliono venire a far  visita ai vivi, mentre il giorno dopo tocca ai  bambini cercare in casa “u canistru” che i morti hanno sicuramente  lasciato durante la loro visita notturna.Il “canestro” non è altro che un cesto pieno di leccornie, dove non possono mancare le “osse dei morti”, dolci  fatti con farina, zucchero, chiodi di garofano e cannella, e la frutta di Martorana, ovvero i famosi dolcetti di marzapane.
Da bambina con i miei cugini, per l’occasione, dormivamo tutti a casa di nonna e la mattina all’alba facevamo a gara per trovare ognuno il suo canestro, contraddistinto da un nastro di colore diverso. La cosa più divertente era lo scambio dei dolci di marzapane che ne seguiva, il mio fico d’indio al posto della castagna oppure una fragola al posto dell’albicocca. Ma quest’anno la coccinella portafortuna di Martorana non l’ho data a nessuno.
Chissà mai!! Ho deciso, dovrò suggerire qualche ricetta a Domenico, chissà se c’è posto per un po’ di Sicilia nel suo ristorante!!!!
Giulia: Halloween, dal MACRO al micro
Il Tg dice che quest’anno in Italia sono stati spesi più di 400 milioni di euro per festeggiare Halloween, la festa più pagana e più anglosassone del nostro calendario.
Il mio scontrino dice che io ho speso 7,53 euro per prepararmi all’evento. La spesa comprende: due tipi di caramelle gommose, liquirizie e gelatine. Dunque anch’io, nel mio piccolo, ho contribuito al raggiungimento di quella cifra assurda.
Se ripenso al mio primo Halloween non posso che catalogarlo tra le esperienze più traumatiche della mia vita.
Ricordo la sera del 31 ottobre di cinque o sei anni fa, quando davanti al mio portone si è presentato uno sparuto gruppetto di streghe, zombie e Dracula in miniatura.
Ricordo la loro mesta reazione, quando hanno compreso che la mia esitazione davanti all’insistenza della loro richiesta: “dolcetto o scherzetto?” era dovuta al fatto che in casa non avevo cibi degni della denominazione di “dolce”.
Ricordo di aver offerto loro, non senza vergogna, un pacchetto di chewing-gum senza zucchero, fingendomi intimorita dalle possibili conseguenze dello “scherzetto”.
Quest’anno però non mi sono fatta cogliere impreparata dalla notte di Tutti i Santi: dolciumi e zucca di plastica finto-intagliata con lampadina interna (acquistata in offerta il 2 novembre di cinque o sei anni fa) erano pronti ad accogliere i piccoli spaventosi pellegrini … peccato però che pioveva troppo e troppo forte, così le sagge genitrici hanno ben pensato di non far uscire i pargoli del quartiere.
Halloween 2010: archiviato senza note particolari.
Cristina: Halloween visto dalla South Bay
I latini dicevano “semel in anno licet insanire”.
Saggio adagio che negli States in occasione della festa di Halloween potrei riadattare in “una volta all'anno è lecito inorridire”. Senza intenzione di turbare la suscettibilità di qualcuno o di molti, non so, proprio non apprezzo il macabro e angosciante presupposto di questa festa: i morti che nelle loro sembianze più orribili si risvegliano ogni anno, lo stesso giorno, facendo uno sforzo terribile per uscire dalla terra o dai loro tumuli cementizi.
E' forse questo immane sforzo e la consapevolezza che la scritta “R.I.P.” sui loro epitaffi non sarà mai una realtà, a renderli così insopportabili alla vista?  Perché a vederli penzolare dalle terrazze delle villette dello strand di Hermosa Beach, o vederne le braccia rinsecchite come fiori assetati fuoriuscire da giardini col prato all'inglese, sembrano davvero disperati... a ripensarci, più che orrore e paura, mi ispirano quasi tenerezza e compassione.
Nel weekend che ha preceduto il giorno dei grandi festeggiamenti, passeggiando sul lungo oceano da Redondo ad Hermosa e poi fino a Manhattan Beach, oltre ad ammirare i giocatori di beach-volley più o meno bravi ma sicuramente tutti in perfetto stile californiano, o almeno come ce li aspettiamo noi, cresciuti a pane e Hollywood (gli stereotipi sono come i proverbi, hanno sempre un fondo di verità):  alti, capelli corti per gli uomini e lunghi e per lo più biondi per le donne, corpi atletici con mia profonda invidia, che si confrontavano sotto rete sull'immensa distesa sabbiosa, vanto della South Bay, ho potuto quasi con spirito giornalistico, prendere nota delle stravaganti decorazioni allestite per la notte del “trick or treat”.  
Molti giardini, noncuranti delle norme del town-plan, hanno letteralmente dato vita a cimiteri estemporanei infestati da ragni di peluche giganti. Alcuni cortili sono stati attrezzati per perfetti barbecue col morto... di sicuro gli ossetti non mancheranno, e i più timidi o forse i più romantici hanno esposto solo qualche zucca intagliata.
Alla fine del percorso o almeno di quello stabilito per la giornata da mio marito ed io (volendo si possono percorrere circa 40 km a piedi lungo la costa, mal di gambe e vesciche permettendo) arriviamo a Manhattan Beach dove si sta svolgendo la “Pumpkin race” con tanto di giudici formalissimi e rigorosi. Gareggiano zucche allestite nei modi più stravaganti per l'occasione, create in tempo reale dai partecipanti con gli strumenti messi a disposizione dal laboratorio dell'organizzazione: zucche e ruote per lo più. Alcune sfrecciano come siluri, altre più sfortunate si limitano semplicemente a sfruttare la pendenza del tracciato (un tratto di strada cittadina) e la loro forma sferica rotolando quel tanto che basta per dire con soddisfazione: almeno ci ho provato!
Ci sono tanti bambini, tutti mascherati e per fortuna con i travestimenti classici anche del nostro carnevale: niente horror per i più piccoli!
Rientriamo con i piedi un po' dolenti (in fondo abbiamo camminato per oltre 3 ore) il sole sta tramontando, ma non ne possiamo ammirare gli splendidi colori perché purtroppo sta piovigginando, di quella pioggia che io chiamo polverosa e per cui ad usare l'ombrello, soprattutto qui, mi sentirei un'idiota, ma che alla fine ti  inzuppa dalla testa in giù.
Nei giorni seguenti e prima del fatidico 31 ottobre, girando per le strade di Redondo mi sono imbattuta, in streghe, in personaggi dei film horror, in qualche animaletto simpatico. Stavo quasi per ricambiare il saluto di una mano scheletrica che sporgeva dal finestrino di una macchina in corsa se non avessi fatto un salto dallo spavento, ed ho evitato invece di stringerla, per questioni di incolumità fisica, alla versione femminile di Edward mani di forbice al supermercato, dove ho avuto forte la tentazione di comprare i cupcake di Halloween; belli, arancioni, invitanti... ma poi la mia coscienza salutista mi ha trattenuto, sigh!
L'anno scorso presi dall'euforia degli “appena arrivati che devono subito tuffarsi nelle tradizioni locali”, ci siamo attrezzati con tanti dolcetti per i bimbi e abbiamo atteso il loro passaggio per la fatidica richiesta: dolcetto o scherzetto?
Ma nessuno bussò nell'orario stabilito (abbiamo imparato che i bimbi nell'andare di casa in casa hanno il coprifuoco alle 9 di sera); ovvio, viviamo in un condominio praticamente blindato, come potevamo aspettarci visite non preannunciate? Beata innocenza, direbbe qualcuno! Salviamo l'onore se vi diciamo che in cuor nostro speravamo nei bambini che abitano nel palazzo? Per la cronaca, quest'anno abbiamo proprio lasciato perdere.
E per finire, non posso non raccontarvi di “chopped” una trasmissione che seguo con interesse su food channel: quattro chef si sfidano a colpi di ricette inventate sulla base di un paniere di ingredienti a sorpresa, dall'antipasto al dolce.  Volete sapere quelli della puntata andata in onda nella settimana di Halloween? Siete sicuri? Non è adatto agli stomaci deboli: cuore di agnello per l'antipasto, pollo nero, dentiere draculine gommose, funghi parassiti del mais coltivato in Messico di cui non so ripetervi il nome (i messicani lo considerano una prelibatezza... de gustibus!) per il piatto principale e per dessert grasshoppers (in inglese sembra fare meno schifo, ma si tratta di cavallette... per il cibo sono molto tradizionalista!!)  peperoni piccanti rossi, e qualcosa di classico che non ho memorizzato vista la sua banalità. I commenti degli chef durante tutta la gara? “It's disgusting!!”. 

mercoledì 3 novembre 2010

Le nostre prime valigie ...

La prima valigia di Cristina: i meandri della memoria    
Chi non ha memoria non ha storia”.
Ultimamente, sarà l'età che avanza, tale adagio rappresenta il mantra che mi induce almeno una volta al giorno a fare esercizio di memoria: cosa ho mangiato l'altro ieri, i nomi dei miei vecchi compagni di classe del liceo, il cognome di un ex collega conosciuto magari solo per il suo soprannome, il nome di qualche via o piazza di città visitate nel passato e altro. Cose semplici che però contribuiscono a togliere un po' di ruggine ai neuroni del ricordo.

Oggi è di turno la prima valigia fatta da sola: vuoto totale!!
Forse con l'ipnosi otterrei qualche risultato o forse non la ricordo perché non è stata memorabile, e quindi non ha diritto di appartenere alla mia storia.
Eh no, qui si apre la sfida! Sono pigra, me lo dicono tutti quindi un po' vero deve essere, ma non sia mai che mi arrenda così presto... in fondo devo solo pensare, non devo mica correre i 100 metri (in quel caso abbandonerei subito senza rimorsi, ovviamente).
Provo con la tecnica delle associazioni di idee e dei pensieri in libertà (qualcuno direbbe brain storming, ma da me nessuna tempesta, alla peggio o meglio, direi io, un bel venticello fresco di inizio primavera): arriverò da qualche parte prima o poi, no?
In effetti qualcosa piano piano affiora. Vediamo, la parola “autonomia” comincia a farsi insistente, quasi fastidiosa.

Vuoi vedere che devo risalire alle elementari per ritrovare il ricordo della mia prima valigia fatta da sola? Sì, perché come facevo i compiti da sola (orrore impronunciabile di questi tempi), facevo le mie ricerche e i lavoretti di Pasqua e Natale, per la festa della mamma e del papà da sola, vuoi che non mi sia fatta anche la prima valigia da sola?  No, non può essere anche perché non viaggiavo molto in quel periodo; i tempi erano difficili e la mia famiglia non si poteva permettere vacanze o altro (eravamo un quintetto familiare monoreddito) per cui ci si limitava alle visite ai parenti e alle gite fuori porta in giornata.

Ma devo associare quella parola al viaggio (altrimenti perché avrei fatto una valigia?) e quindi mi convinco che se ricordo il primo viaggio devo per forza ricordare anche la prima valigia. Per coerenza e precisione (sono un po' picky, come direbbero qui negli States) cerco di andare a ritroso nel tempo e mi ritrovo così a pensare alla prima gita scolastica di 2 giorni: terza liceo, meta Assisi.
Lo so che penserete che sarà anche il primo viaggio degno di tale nome, ma non certamente la prima valigia da sola vista l'età facilmente calcolabile dall'indizio scolastico, e invece vi devo smentire, lo è stata. E da quella poi tutte le altre. La mia mamma sicuramente fece da supervisore, integrando eventuali mie dimenticanze, ma la scelta dei vestiti e del resto necessario è stata assolutamente mia come pure la loro disposizione all'interno della valigia, anche se non si trattava di valigia in senso stretto ma solo di un borsone marrone ereditato dai miei fratelli più vecchi.

Nel mio primo microcosmo da spalla niente di speciale quindi, solo qualche vestito e il necessario per l'igiene personale e... gli appunti e il materiale scolastico che ogni bravo studente in gita si porta appresso. Memoria di cose ci fosse scritto? Nessuna purtroppo; potrei provare a fare qualche deduzione e lanciarmi in qualche citazione colta, ma non mi piace barare: così è se vi pare!

La prima valigia di Enza: prima fuga dall'Italia!!!

Il colore collegato al Leone è l'arancio, simbolo di dignità e nobiltà d’animo”.
Arancio è il colore della borsa da lavoro , colma di carte e delusione,  che mi trascino dietro per  convincere, o convincermi, che rappresento qualcosa all’interno della mia azienda, ed arancio è il colore di  quella grande valigia in similpelle che iniziai a preparare nell’ormai lontano 6 Agosto del 1993.
Le candeline per il mio diciannovesimo compleanno le avrei spente, due giorni dopo,  molto lontano dalla mia famiglia, malgrado questo però il mio desiderio più grande si stava avverando: un intero anno a Boston, a casa della sorella di mamma, a studiare l’inglese e conoscere finalmente l’American way of life.

Non amavo interessarmi dei preparativi, e così prima di ogni viaggio mi bastava lasciare sul letto le cose che non dovevano assolutamente mancare ed il gioco era fatto, mia mamma avrebbe pensato a tutto il resto.
Ma stavolta era diverso.
Quella valigia doveva essere abbastanza grande da contenere gli affetti che lasciavo, il dolore di quell’ultimo anno, le paure, i fallimenti professionali e personali di mio padre e le speranze di mia madre per  una vita diversa, almeno per me. A distanza di anni ho compreso che quel viaggio è stato il primo di una lunga serie di fughe che hanno caratterizzato la mia vita, fughe da ciò che non riesco a cambiare e verso mete che non so  raggiungere.

Non possedevo una valigia in grado di affrontare un volo transatlantico, e così mia nonna mi diede una delle tante che la figlia “miricana” lasciava sistematicamente alla fine di  ogni suo  viaggio in Italia.
La zia arrivava dagli Stati Uniti con delle valigie enormi, il tempo di un  abbraccio, di qualche lacrima di gioia  e poi tutti, grandi e piccini , assistevamo a quello che ormai era diventato un vero e proprio  rituale: l’apertura delle valigie.
Mentre gli “uomini” fingevano di defilarsi, quando invece osservavano con occhio attento, c’era chi, come la nonna, aveva un posto d’onore nelle primissime file, chi sedeva sulle scale, e chi si faceva spazio tra i pacchi, ma tutti aspettavano con trepidazione quel momento.
All’improvviso ecco davanti a noi  il “nuovo mondo”, potevamo sentirne il profumo, vederne i colori e  assaporarne i sapori.
E che importava se mia nonna non avrebbe mai indossato nessuno di quegli  abiti dai colori troppo accesi per il suo aspetto composto, il giorno dopo sarei entrata a scuola fiera con il mio pacco gigante di colori Crayola!
Così, tra un misto di emozioni volteggiavano in aria abiti, giocattoli, attrezzi da cucina miracolosi ed una quantità infinita di creme e saponi, e mentre le zie si contendevano di tutto: “Questo sta bene a me”, ”Che dici è la mia taglia?”, nonno con aria meravigliata esclamava:  Ci paria  chi non d’ aviumu cà sapuni”.

La sera prima della partenza  da soru miricana” le risate lasciavano il posto agli occhi lucidi, le voci eccitate e frenetiche che in poco tempo avevano dovuto colmare il vuoto degli anni trascorsi lontane, adesso diventavano meste e nessuno aveva il coraggio e la voglia di aiutare la zia a chiudere le sue valigie.
La casa di nonna era tutta un via vai di amici, vicini di casa e parenti che si presentavano a salutare gli zii ognuno con un regalo.
Erano gli anni in cui non si conosceva ancora il significato di “volo low cost”, le Torri Gemelle erano ancora una delle più belle attrazioni di New York, e gli emigranti italiani potevano racchiudere nelle loro valigie sapori ed odori della propria terra d’origine, avendo solo cura di non trasportare cibi sconosciuti agli americani.
Ed allora c’era chi portava “ a ricotta ‘funnata”, chi “ a liva passuluta”, chi, come mia madre, un centrino all’uncinetto, ma non mancava mai  la solita cornice con la foto ricordo della famiglia siciliana, in cambio di una dei parenti americani davanti ad una  bellissima auto immersa in una fitta coltre di neve.

L’avevo sognato quel mondo, l’avevo respirato per anni e l’avevo desiderato più di ogni altra cosa … ed adesso era lì, a sole nove ore di volo.
In quella grande valigia arancione assieme ai miei pochi abiti - da lì a poco i vestiti sarei andata a comprarli con il carrello della spesa -  ho messo le lettere delle amiche, la musica italiana preferita ed una cassetta dove la mia famiglia, ognuno a suo modo, mi  augurava un buon viaggio.

In quella valigia, e poi per sempre nella mia vita, avevo riservato un posto speciale ad un piccolo biglietto scritto in fretta da mio nonno paterno, il quale mi raccomandava di guardare sempre avanti anche nei momenti più difficili, quando la nostalgia sarebbe stata tale  da voler tornare indietro.
La nostalgia mi ha “fottuto”, dopo quell’anno sono tornata indietro e l’America per me è diventata di nuovo una meta irraggiungibile.

La prima valigia di Giulia: summer in Belfast

“Pronto, mamma. Ciao, ti rubo solo un minuto … volevi chiederti: secondo te, quale è stata la prima valigia che mi sono fatta veramente da sola?”
(lungo silenzio)
“Mah, forse quella della settimana scorsa quando sei andata al convegno di Milano.”

Scherzi a parte, il mio rapporto con la predisposizione dei bagagli è presto spiegato: se da una parte adoro l’idea del viaggio, che ormai è diventato parte integrante del mio DNA, tanto che, per non perdere nemmeno un’occasione, sostengo (mentendo spudoratamente) di avere sempre la valigia pronta sotto il letto, dall’altra vivo l’atto di fare la valigia in uno stato di perenne indecisione, tra la sindrome della chiocciola e quella del vagabondo … l’eterno dilemma tra superfluo ed essenziale. Il risultato di tali incertezze si manifesta nella continua ricerca del giusto consiglio sull’utilizzo di un dato capo di abbigliamento o sulla quantità di scarpe da portare con me (“questi sandali stanno benissimo con quel vestito, e poi … peseranno al massimo 5 gr.!”), mentre la pazienza delle persone coinvolte si riduce proporzionalmente all’aumentare della mia età anagrafica e del numero di valigie preparate.

Malgrado quindi, l’allestimento del classico trolley rappresenti per me più il frutto di un lavoro di squadra, che un’iniziativa personale, ho tentato di focalizzare il momento che ha segnato la mia emancipazione a “viaggiatrice autonoma”.

Estate 1994: avevo appena terminato il primo anno di liceo. Per migliorare il mio inglese, fu deciso che avrei trascorso un paio di settimane ospite presso la famiglia di un collega di mio padre, a Belfast.
Ero entusiasta perché, pur avendo già viaggiato senza i miei genitori, per la prima volta avrei preso l’aereo da sola e avrei vissuto in una tipica famiglia irlandese. Ero decisa a dimostrare fin dall’inizio che non avrei avuto problemi a cavarmela, quindi, a discapito delle insistenze di mia madre, la preparazione delle valigie avvenne, per così dire, a mio rischio e pericolo. Così accanto agli immancabili Levi’s 501, alle felpe e al k-way, nella valigia presero posto minigonne, canotte e vestitini da Lolita, il tutto senza tenere conto che la temperatura dell’agosto irlandese si discosta di almeno 15 gradi da quella della Pianura Padana nello stesso periodo.
Il risultato fu nefasto: sfiorai per un pelo la bronco-polmonite. La mia host-mother, insegnante di gaelico all’Università di Belfast e madre di cinque figli, curò i miei malanni con la medicina omeopatica, ovvero con composti vegetali disgustosi, e con un periodo di riposo forzato nella camera, interamente tappezzata di poster dei Take That e degli East 17, che condividevo con la figlia adolescente, Claire.

Ma può forse una raffreddatura fermare una ragazzina di quindici anni alla scoperta di una città straniera? La risposta è ovvia … certo che no! Quelle settimane a Belfast sono state indimenticabili, e come direbbero i ben pensanti, un vero momento di crescita.
Forse però solo qualche mese più tardi, grazie anche al successo della canzone Zombie dei Cranberries, ho potuto condividere con chi mi stava vicino le contraddizioni e la sensazione di tensione, abilmente mascherata dietro una vivacità e un’ospitalità encomiabili, che caratterizzano gli abitanti di una regione assuefatta al conflitto: i blindati con i soldati in assetto da guerra lungo le strade della città, il “coprifuoco” imposto dalla famiglia che mi ospitava, il fragore della bomba scoppiata nella scuola pubblica che si trovava dietro casa (fatto che mi sono ben guardata dal raccontare ai miei genitori per paura che mi obbligassero a tornare), l’interdizione ad alcuni quartieri (“it’s not safe”).
Al termine del mio soggiorno irlandese ero perfettamente consapevole che, assieme alla mia valigia tutta sbagliata, riportavo a casa un pezzettino di storia, della quale facevo un po’ parte anch’io.