mercoledì 3 novembre 2010

Le nostre prime valigie ...

La prima valigia di Cristina: i meandri della memoria    
Chi non ha memoria non ha storia”.
Ultimamente, sarà l'età che avanza, tale adagio rappresenta il mantra che mi induce almeno una volta al giorno a fare esercizio di memoria: cosa ho mangiato l'altro ieri, i nomi dei miei vecchi compagni di classe del liceo, il cognome di un ex collega conosciuto magari solo per il suo soprannome, il nome di qualche via o piazza di città visitate nel passato e altro. Cose semplici che però contribuiscono a togliere un po' di ruggine ai neuroni del ricordo.

Oggi è di turno la prima valigia fatta da sola: vuoto totale!!
Forse con l'ipnosi otterrei qualche risultato o forse non la ricordo perché non è stata memorabile, e quindi non ha diritto di appartenere alla mia storia.
Eh no, qui si apre la sfida! Sono pigra, me lo dicono tutti quindi un po' vero deve essere, ma non sia mai che mi arrenda così presto... in fondo devo solo pensare, non devo mica correre i 100 metri (in quel caso abbandonerei subito senza rimorsi, ovviamente).
Provo con la tecnica delle associazioni di idee e dei pensieri in libertà (qualcuno direbbe brain storming, ma da me nessuna tempesta, alla peggio o meglio, direi io, un bel venticello fresco di inizio primavera): arriverò da qualche parte prima o poi, no?
In effetti qualcosa piano piano affiora. Vediamo, la parola “autonomia” comincia a farsi insistente, quasi fastidiosa.

Vuoi vedere che devo risalire alle elementari per ritrovare il ricordo della mia prima valigia fatta da sola? Sì, perché come facevo i compiti da sola (orrore impronunciabile di questi tempi), facevo le mie ricerche e i lavoretti di Pasqua e Natale, per la festa della mamma e del papà da sola, vuoi che non mi sia fatta anche la prima valigia da sola?  No, non può essere anche perché non viaggiavo molto in quel periodo; i tempi erano difficili e la mia famiglia non si poteva permettere vacanze o altro (eravamo un quintetto familiare monoreddito) per cui ci si limitava alle visite ai parenti e alle gite fuori porta in giornata.

Ma devo associare quella parola al viaggio (altrimenti perché avrei fatto una valigia?) e quindi mi convinco che se ricordo il primo viaggio devo per forza ricordare anche la prima valigia. Per coerenza e precisione (sono un po' picky, come direbbero qui negli States) cerco di andare a ritroso nel tempo e mi ritrovo così a pensare alla prima gita scolastica di 2 giorni: terza liceo, meta Assisi.
Lo so che penserete che sarà anche il primo viaggio degno di tale nome, ma non certamente la prima valigia da sola vista l'età facilmente calcolabile dall'indizio scolastico, e invece vi devo smentire, lo è stata. E da quella poi tutte le altre. La mia mamma sicuramente fece da supervisore, integrando eventuali mie dimenticanze, ma la scelta dei vestiti e del resto necessario è stata assolutamente mia come pure la loro disposizione all'interno della valigia, anche se non si trattava di valigia in senso stretto ma solo di un borsone marrone ereditato dai miei fratelli più vecchi.

Nel mio primo microcosmo da spalla niente di speciale quindi, solo qualche vestito e il necessario per l'igiene personale e... gli appunti e il materiale scolastico che ogni bravo studente in gita si porta appresso. Memoria di cose ci fosse scritto? Nessuna purtroppo; potrei provare a fare qualche deduzione e lanciarmi in qualche citazione colta, ma non mi piace barare: così è se vi pare!

La prima valigia di Enza: prima fuga dall'Italia!!!

Il colore collegato al Leone è l'arancio, simbolo di dignità e nobiltà d’animo”.
Arancio è il colore della borsa da lavoro , colma di carte e delusione,  che mi trascino dietro per  convincere, o convincermi, che rappresento qualcosa all’interno della mia azienda, ed arancio è il colore di  quella grande valigia in similpelle che iniziai a preparare nell’ormai lontano 6 Agosto del 1993.
Le candeline per il mio diciannovesimo compleanno le avrei spente, due giorni dopo,  molto lontano dalla mia famiglia, malgrado questo però il mio desiderio più grande si stava avverando: un intero anno a Boston, a casa della sorella di mamma, a studiare l’inglese e conoscere finalmente l’American way of life.

Non amavo interessarmi dei preparativi, e così prima di ogni viaggio mi bastava lasciare sul letto le cose che non dovevano assolutamente mancare ed il gioco era fatto, mia mamma avrebbe pensato a tutto il resto.
Ma stavolta era diverso.
Quella valigia doveva essere abbastanza grande da contenere gli affetti che lasciavo, il dolore di quell’ultimo anno, le paure, i fallimenti professionali e personali di mio padre e le speranze di mia madre per  una vita diversa, almeno per me. A distanza di anni ho compreso che quel viaggio è stato il primo di una lunga serie di fughe che hanno caratterizzato la mia vita, fughe da ciò che non riesco a cambiare e verso mete che non so  raggiungere.

Non possedevo una valigia in grado di affrontare un volo transatlantico, e così mia nonna mi diede una delle tante che la figlia “miricana” lasciava sistematicamente alla fine di  ogni suo  viaggio in Italia.
La zia arrivava dagli Stati Uniti con delle valigie enormi, il tempo di un  abbraccio, di qualche lacrima di gioia  e poi tutti, grandi e piccini , assistevamo a quello che ormai era diventato un vero e proprio  rituale: l’apertura delle valigie.
Mentre gli “uomini” fingevano di defilarsi, quando invece osservavano con occhio attento, c’era chi, come la nonna, aveva un posto d’onore nelle primissime file, chi sedeva sulle scale, e chi si faceva spazio tra i pacchi, ma tutti aspettavano con trepidazione quel momento.
All’improvviso ecco davanti a noi  il “nuovo mondo”, potevamo sentirne il profumo, vederne i colori e  assaporarne i sapori.
E che importava se mia nonna non avrebbe mai indossato nessuno di quegli  abiti dai colori troppo accesi per il suo aspetto composto, il giorno dopo sarei entrata a scuola fiera con il mio pacco gigante di colori Crayola!
Così, tra un misto di emozioni volteggiavano in aria abiti, giocattoli, attrezzi da cucina miracolosi ed una quantità infinita di creme e saponi, e mentre le zie si contendevano di tutto: “Questo sta bene a me”, ”Che dici è la mia taglia?”, nonno con aria meravigliata esclamava:  Ci paria  chi non d’ aviumu cà sapuni”.

La sera prima della partenza  da soru miricana” le risate lasciavano il posto agli occhi lucidi, le voci eccitate e frenetiche che in poco tempo avevano dovuto colmare il vuoto degli anni trascorsi lontane, adesso diventavano meste e nessuno aveva il coraggio e la voglia di aiutare la zia a chiudere le sue valigie.
La casa di nonna era tutta un via vai di amici, vicini di casa e parenti che si presentavano a salutare gli zii ognuno con un regalo.
Erano gli anni in cui non si conosceva ancora il significato di “volo low cost”, le Torri Gemelle erano ancora una delle più belle attrazioni di New York, e gli emigranti italiani potevano racchiudere nelle loro valigie sapori ed odori della propria terra d’origine, avendo solo cura di non trasportare cibi sconosciuti agli americani.
Ed allora c’era chi portava “ a ricotta ‘funnata”, chi “ a liva passuluta”, chi, come mia madre, un centrino all’uncinetto, ma non mancava mai  la solita cornice con la foto ricordo della famiglia siciliana, in cambio di una dei parenti americani davanti ad una  bellissima auto immersa in una fitta coltre di neve.

L’avevo sognato quel mondo, l’avevo respirato per anni e l’avevo desiderato più di ogni altra cosa … ed adesso era lì, a sole nove ore di volo.
In quella grande valigia arancione assieme ai miei pochi abiti - da lì a poco i vestiti sarei andata a comprarli con il carrello della spesa -  ho messo le lettere delle amiche, la musica italiana preferita ed una cassetta dove la mia famiglia, ognuno a suo modo, mi  augurava un buon viaggio.

In quella valigia, e poi per sempre nella mia vita, avevo riservato un posto speciale ad un piccolo biglietto scritto in fretta da mio nonno paterno, il quale mi raccomandava di guardare sempre avanti anche nei momenti più difficili, quando la nostalgia sarebbe stata tale  da voler tornare indietro.
La nostalgia mi ha “fottuto”, dopo quell’anno sono tornata indietro e l’America per me è diventata di nuovo una meta irraggiungibile.

La prima valigia di Giulia: summer in Belfast

“Pronto, mamma. Ciao, ti rubo solo un minuto … volevi chiederti: secondo te, quale è stata la prima valigia che mi sono fatta veramente da sola?”
(lungo silenzio)
“Mah, forse quella della settimana scorsa quando sei andata al convegno di Milano.”

Scherzi a parte, il mio rapporto con la predisposizione dei bagagli è presto spiegato: se da una parte adoro l’idea del viaggio, che ormai è diventato parte integrante del mio DNA, tanto che, per non perdere nemmeno un’occasione, sostengo (mentendo spudoratamente) di avere sempre la valigia pronta sotto il letto, dall’altra vivo l’atto di fare la valigia in uno stato di perenne indecisione, tra la sindrome della chiocciola e quella del vagabondo … l’eterno dilemma tra superfluo ed essenziale. Il risultato di tali incertezze si manifesta nella continua ricerca del giusto consiglio sull’utilizzo di un dato capo di abbigliamento o sulla quantità di scarpe da portare con me (“questi sandali stanno benissimo con quel vestito, e poi … peseranno al massimo 5 gr.!”), mentre la pazienza delle persone coinvolte si riduce proporzionalmente all’aumentare della mia età anagrafica e del numero di valigie preparate.

Malgrado quindi, l’allestimento del classico trolley rappresenti per me più il frutto di un lavoro di squadra, che un’iniziativa personale, ho tentato di focalizzare il momento che ha segnato la mia emancipazione a “viaggiatrice autonoma”.

Estate 1994: avevo appena terminato il primo anno di liceo. Per migliorare il mio inglese, fu deciso che avrei trascorso un paio di settimane ospite presso la famiglia di un collega di mio padre, a Belfast.
Ero entusiasta perché, pur avendo già viaggiato senza i miei genitori, per la prima volta avrei preso l’aereo da sola e avrei vissuto in una tipica famiglia irlandese. Ero decisa a dimostrare fin dall’inizio che non avrei avuto problemi a cavarmela, quindi, a discapito delle insistenze di mia madre, la preparazione delle valigie avvenne, per così dire, a mio rischio e pericolo. Così accanto agli immancabili Levi’s 501, alle felpe e al k-way, nella valigia presero posto minigonne, canotte e vestitini da Lolita, il tutto senza tenere conto che la temperatura dell’agosto irlandese si discosta di almeno 15 gradi da quella della Pianura Padana nello stesso periodo.
Il risultato fu nefasto: sfiorai per un pelo la bronco-polmonite. La mia host-mother, insegnante di gaelico all’Università di Belfast e madre di cinque figli, curò i miei malanni con la medicina omeopatica, ovvero con composti vegetali disgustosi, e con un periodo di riposo forzato nella camera, interamente tappezzata di poster dei Take That e degli East 17, che condividevo con la figlia adolescente, Claire.

Ma può forse una raffreddatura fermare una ragazzina di quindici anni alla scoperta di una città straniera? La risposta è ovvia … certo che no! Quelle settimane a Belfast sono state indimenticabili, e come direbbero i ben pensanti, un vero momento di crescita.
Forse però solo qualche mese più tardi, grazie anche al successo della canzone Zombie dei Cranberries, ho potuto condividere con chi mi stava vicino le contraddizioni e la sensazione di tensione, abilmente mascherata dietro una vivacità e un’ospitalità encomiabili, che caratterizzano gli abitanti di una regione assuefatta al conflitto: i blindati con i soldati in assetto da guerra lungo le strade della città, il “coprifuoco” imposto dalla famiglia che mi ospitava, il fragore della bomba scoppiata nella scuola pubblica che si trovava dietro casa (fatto che mi sono ben guardata dal raccontare ai miei genitori per paura che mi obbligassero a tornare), l’interdizione ad alcuni quartieri (“it’s not safe”).
Al termine del mio soggiorno irlandese ero perfettamente consapevole che, assieme alla mia valigia tutta sbagliata, riportavo a casa un pezzettino di storia, della quale facevo un po’ parte anch’io.

5 commenti:

  1. Sono felice!Dopo tanto tempo ho ritrovato l'entusiasmo per qualcosa...vi presento il nostro blog(uso una frase di Giulia!!!)
    Cristina e Giulia, volevo ringraziarvi per lo sforzo che fate al fine di coinvolgermi nella gestione grafica e tenica del blog ma sono un pò ignorante in materia e per questo confido in voi!
    Ogni tanto,ho qualche problema a gestire i pensieri e le virgole e così ho "assunto" Giulia come "supervisora" delle mie bozze.Grazie e spero col tempo di darti sempre meno lavoro.
    Cri grazie per essere il filo diretto con l'altra parte di me e non solo.
    Mi auguro che questo blog possa diventare la borsa dove conservare le nostre esperienze nel cammino della vita.
    Enza

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  2. Aprire una valigia è come aprire la porta di casa, ritrovi le tue cose e il tuo mondo e se qualcuno è vicino a te in quel momento vuol dire anche rivelarsi e renderlo partecipe di quel tuo microcosmo. Mi piace pensare alla valigia del nostro blog come al simbolo della nostra ospitalità reciproca, d'animo e d'intelletto e anche se virtuale, puramente vera.
    Comunque prima o poi passerete ben, care Enza e Giulia, sotto le grinfie della mia arte culinaria... non ci sarà virtuale che tenga, non resterò per sempre, credo, negli States!
    Cri

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  3. Ci sono stati giorni in cui mi sono sentita una vera dittatrice: erano i giorni in cui questa avventura stava per prendere forma, i giorni in cui ci inviavamo mail ogni due ore, in cui si "parlava" dell'impostazione generale, del nome che avremo dato a questo blog, dell'immagine di fondo, dei colori (questa ultima parte non è ancora arrivata ad una definizione, vero? ;-)) ... in quei giorni la mia vocazione da "maestrina" prendeva il sopravvento, e un pò mi dispiaceva dare un ritmo così serrato e così "serio" ad un progetto come questo, ideato per il piacere di scrivere e raccontare le nostre diverse esperienze.
    Ora guardando la prima pagina di questo nostro diario di bordo e non posso che essere felice, felice soprattutto di condividerlo con le mie compagne di viaggio!
    Giulia

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  4. LA VALIGIA "FUORILUOGO".
    Settembre 1999: Romania, Bucarest.
    Arrivai all'aeroporto di Otopeni a Bucarest con la mia valigia rigida "Roncato Sfera" color celeste.
    Come uscii dal ritiro bagagli dell'aeroporto mi sentii addosso gli occhi di ogni passante. Inizialmente non capii perchè tutte quelle persone mi stavano guardando, ero presa da me stessa e dall'adrenalina che avevo dentro, trovandomi a 25 anni in Romania da sola con una Tesi di Laurea da scrivere. Capii solo dopo qualche giorno, solo dopo aver aggiunto qualche elemento in più alla mia idea iniziale sulla Romania (legata essenzialmente a Ceaucescu, Dracula e Nadia Comaneci), che la mia fiammante valigia supermoderna, per i romeni era così estremamente occidentale da sembrare fuori luogo; non poteva passare inosservata in un Paese ancora in forte difficoltà, dopo anni di totalitarismo e di chiusura totale all'occidente capitalista.
    "Al termine del mio soggiorno" rumeno durato 6 lunghi mesi "ero perfettamente consapevole che, assieme alla mia valigia tutta sbagliata, riportavo a casa un pezzettino di storia, della quale facevo un po’ parte anch’io."
    Francesca.

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  5. Ciao Francesca!
    Grazie per i tuoi contributi, per averci raccontato qualche frammento della tua storia. Questo blog è nato proprio per questo: condividere esperienze ... dunque hai colto proprio nel segno! :-) Buon viaggio!
    P.S: Quale onore ... è la prima volta, penso, che vedo una mia frase citata. Grazie ancora!
    Giulia

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