domenica 19 giugno 2011

Burocrazia ed efficienza: are you kidding me?

Prendo spunto da un post del blog “Vita a San Diego” relativo all'obbligo civile di prestare servizio come giurato, per sottolineare l'efficienza della burocrazia americana.
Per sapere come funziona la procedura, la lettura del post indicato potrà fornirne i dettagli, esclusi però quelli che riguardano l'assolvimento dell'obbligo stesso e la sua conclusione.
Sarà pure una coincidenza ma la scorsa settimana proprio il mio Ing. è stato protagonista di questa inusuale (per noi italiani, si intende) esperienza (sì, lui possiede tutti i requisiti richiesti: hurrà che fortuna!).

Il rito prevede che il “precettato” - non ci si può infatti sottrarre a tale obbligo a meno che non si abbia una giustificazione grave e plausibile - chiami l'ufficio del tribunale ogni giorno a partire dal precedente a quello stabilito per l'udienza, per sapere se l'indomani deve presentarsi o meno nella sede del processo.
Può infatti capitare che nei giorni di precettazione (di solito 5 o 7) non venga richiesta l'effettiva presenza in aula perchè magari la giuria è già stata formata da altre persone selezionate fino a quel momento da accusa e difesa; in questo modo l'obbligo viene assolto, diciamo, con la sola reperibilità.

La maggior parte delle volte però accade che in tribunale ci si debba proprio andare: così è infatti per il mio Ing.
Si tratta di una causa civile, per fortuna, certo impegnativa dal punto di vista della responsabilità nei confronti della realtà finanziaria di qualche sconosciuto, ma almeno non si manda in galera nessuno.

Prima di accedere alla selezione vera e propria come potenziale giurato, in cui gli avvocati della difesa, dell'accusa e il giudice rivolgono domande personali e poi specifiche sul caso da trattare, per testare l'imparzialità del candidato, (pare di vedere una scena di Perry Mason o del più recente Law and Order) si deve partecipare ad un mini-corso formativo con esamino finale – si può fare tutto on-line – con tanto di rilascio di attestato di idoneità.
Così si impara che la durata massima di un processo civile è di sette giorni (avete capito bene: sette giorni!!!), che ogni giorno di servizio viene retribuito con 15 dollari e un rimborso chilometrico e che l'assolvimento del jury service ti libera per almeno un anno e se sei fortunato per un periodo anche più lungo. Ecco spiegato il motivo per cui le aziende prevedono, tra i motivi di assenza del dipendente, oltre alle festività e alle ferie, anche quello di “giurato”.

Il mio Ing. se la cava con un giorno e mezzo di lavoro, uno di selezione e dibattimento e mezzo per la delibera della giuria: se non è efficienza questa!
Infine il rilascio del certificato, che attesta che si è prestato servizio di giurato, chiude tutta la procedura.
Tirando un sospiro di sollievo come a dire “bene, fatto anche questo, ora per un po' non ci penso più” viene archiviata tra le esperienze esclusivamente americane anche la settimana del giurato.
E soltanto 6 giorni più tardi, arriva via posta, in una insospettabile busta, una gradita sorpresa: un bell'assegno di 16 dollari!
Ma con chi credevamo di avere a che fare? Qui non si scherza mica!

venerdì 17 giugno 2011

Istantanee da un trasloco

Perché  ogni lunedì la mia settimana si apre con la lettura delle opinioni di Tim Harford?
Sarà perché Tim Harford incarna la versione economica di Charlie Eppes, il protagonista di Numb3rs, serie televisiva che apprezzo particolarmente, malgrado la mia atavica avversione alla matematica.
Sarà perché fin dai tempi della scuola ho sempre ammirato chi cercava di spiegarmi concetti complessi con esempi chiari e tangibili, applicando alla vita di tutti giorni teorie all’apparenza puramente dottrinali.
O più semplicemente sarà perché mettono di buon umore, sono divertenti, sarcastiche e per quanto la risposta abbia una motivazione apparentemente inaspettata o esageratamente tecnica, il consiglio che se ne ricava è sempre dotato di un inconfondibile buon senso, come nella migliore tradizione de “La posta del cuore” (vedi per esempio “Il suicidio si rimanda” del 09/11/2010: per convincere l’aspirante suicida a rinunciare al suo progetto si tira in ballo addirittura la teoria delle opzioni reali!).

Così nei trafelati giorni del trasloco non ho potuto fare a meno di ripensare ad uno degli articoli di Tim, intitolato “Vivere insieme”, non tanto per la problematica legata alla convivenza e vendita dell’appartamento, problema che nel nostro caso non sussiste, quanto per la riflessione squisitamente pratico-operativa che quell’articolo mi ha ispirato, ovvero: ma come fa quel disgraziato a gestirsi la vita in due case? Come fa a ritrovare le sue cose?
A più di un mese dal trasloco nella nostra nuova casa non è raro sentire urla primordiali quali: "ma dov’è finita la mia polo blu/la cucitrice/le ciabatte da piscina/il pettine a denti larghi …?”. La risposta riguardo all’ubicazione dell’oggetto nel 90% dei casi è: “l’hai lasciato di là!”, quando per “di là” si intende il precedente domicilio, con il risultato che la citazione conclusiva è: “ricordami che quando passiamo lo andiamo a prendere!”.
Inoltre il termine “casa” ha assunto nell’ultimo periodo un significato per noi quanto mai aleatorio, si ripetono infatti spessissimo le stesse conversazioni telefoniche: 
“Dove sei?”
“Sono a casa”
“Quale?”
“La nuova” (e sottolineo che il tono a questo punto della conversazione è leggermente scocciato).
Così per evitare inutili disquisizioni logistiche, abbiamo deciso di indicare la nostra posizione con il nome della località geografica in cui si trova l’abitazione.
A voler essere cinici dunque nel caso specifico non avrei dubbi: indipendentemente dal valore conferito alla storia d’amore in corso, venderei l’appartamento.
Il rapporto con il mio compagno potrebbe provocarmi dei gran mal di testa, i quali però sarebbero sicuramente inferiori rispetto a quelli che dovrei patire nel caso in cui la mia routine, già di per sé convulsa, fosse divisa tra due case … avere UNA vita in un’UNICA abitazione non ha prezzo, per tutto il resto ci sono buone dosi di pazienza e di camomilla! 
Giulia

mercoledì 15 giugno 2011

The Liberty Bell

Il mio Ing. ed io abbiamo una grande opportunità: poter visitare le città più importanti o almeno le più note degli Stati Uniti a costi inferiori rispetto ad una partenza dall'Italia e riducendo drasticamente le ore di volo.
Il primo aspetto della vicenda non mi lascia indifferente, anzi rappresenta assolutamente un buon incentivo, ma il secondo è davvero il mio bonus viaggio, il reale premio-vacanza!
Quindi perchè non approfittare? Detto, fatto... più o meno, dai, impegni di lavoro, ferie e salute permettendo: e così si parte alla scoperta della costa est.

Facciamo più tappe ammirando e imparando molto della storia e delle abitudini americane non mancando di fare i confronti con la California, rilevando qualche affinità ma soprattutto differenze che ce la rendono sempre più gradita e il clima fra queste non occupa proprio l'ultimo posto.
Molte cose ci affascinano nelle città che visitiamo: il brulichio frenetico di alcune vie principali, l'ordine e la vivibilità di alcuni centri, la vegetazione ricca e rigogliosa, l'umidità e la densità della nebbia che nulla hanno da invidiare a quelle della Val Padana, la verticalità estrema dell'architettura, la riuscita combinazione di antico (ma sì, concediamoglielo!) e moderno e infine la generale omologazione, “che sa tanto di America”, a partire dal cibo, passando dalle varie catene di negozi di tutti i generi per finire con l'abbigliamento.

Ma una cosa in particolare mi colpisce e di questa vorrei raccontare.
Quando si passa per Filadelfia anche nel tour di una sola giornata è inevitabile, quasi fosse un dovere morale, visitare il museo dove è custodita la “Liberty Bell” (la campana della libertà) così definita perchè al suono dei suoi rintocchi i cittadini nel 1776 furono invitati alla pubblica lettura della Dichiarazione di Indipendenza che sancì la nascita degli Stati Uniti d'America come nazione nuova e libera dal dominio inglese.
Da questo episodio altri ne seguirono, attribuendo di volta in volta alla campana della libertà un valore simbolico e specifico del particolare momento storico vissuto (ad ex: la libertà e l'uguaglianza reclamata dagli Afro-americani negli anni della segregazione razziale e ancor prima la lotta per l'abolizione della schiavitù).
Non è certo la sua artistica fattura ad attrarre la mia attenzione, ad essere onesti non è neppure bella, è... una campana!
Ciò che invece è in bella evidenza è una crepa larga almeno 2 cm che corre lungo tutto il suo corpo e che mi fa immaginare un fervente sostenitore della libertà dal rintocco troppo energico.
Però quella crepa così vistosa mi dà proprio fastidio: “perchè non l'hanno aggiustata?” “Rappresenta forse l'istante rubato al fluire del tempo in cui qualcosa di clamoroso è accaduto?"
Cerco la risposta tra le didascalie offerte dal museo (confesso che non so nulla in merito a questa campana, mi scuso per l'ignoranza) e la trovo; è a dir poco sorprendente: la campana possiede questo solco fin dalla sua prima fusione e nessuno è mai stato in grado di chiuderlo ed eliminarlo.

Ho una strana sensazione mentre leggo la storia della campana e di tutti gli avvenimenti ad essa legati: quella crepa... continua a darmi fastidio.
Se ne esalta il significato simbolico di libertà, di eroismo e di riscatto dell'essere umano dalle prevaricazioni, ma percepisco di fondo una nota stonata (sarà la crepa?).
Perchè sono riluttante ad entusiasmarmi alla lettura dei principi di uguaglianza e libertà sanciti nella dichiarazione di indipendenza? Perchè l'emendamento più importante della costituzione americana, il primo, che sembra così strettamente correlato alla vita reale e simbolica della campana, mi lascia perplessa?
Non riesco in effetti ad associare con facilità tali affermazioni illuminate ed universali ad un qualche evento storico successivo alla loro proclamazione. La colpa è sicuramente della mia ignoranza o della mia coscienza polemica, che dispettosa mi suggerisce: “ e i nativi americani? E gli schiavi? E la segregazione razziale legalizzata fino quasi alla fine del 20° secolo? E il latente ma perseverante razzismo? E le guerre? E la pena di morte? e... no basta, mi fermo qui, mi sembra abbastanza!

Sono consapevole che la mia spiegazione della crepa sulla campana è del tutto personale e non suffragata da alcun elemento reale e razionale, è solo una giustificazione sentimentale, ma non è, almeno per me, meno emblematica del significato della campana stessa.
Quella crepa che nessuno riesce a rinsaldare mi appare come un monito: la libertà e l'uguaglianza fra gli uomini sono la meta di un percorso in salita che forse non si potrà mai raggiungere ma che solo ogni tanto si scorge, a brevi tratti, durante il viaggio.